venerdì 29 maggio 2015

Something in the Way.

Poco fa ho letto un articolo QUI sul blog della dolce Nella che mi ha dato parecchio da pensare e sul momento non ho saputo cosa commentare. Troppo confusa per poterlo sapere. Nell'articolo Nella mi ha fatto scoprire l'esistenza di un film documentario su Kurt Cobain uscito quest'anno e sono stata travolta da emozioni contrastanti, perciò mi va di condividere alcune idee e qualche ricordo.

Chi ha apprezzato la persona o la musica di Kurt Cobain non ha bisogno dell'ennesima effrazione nella sua vita privata. Lo ascolto da quando avevo quattordici anni e dieci anni dopo ho ancora i Nirvana sempre a portata di mano, è uno di quei pochi gruppi che può cambiarmi l'umore in un istante.
Non so, forse questa cosa mi urta particolarmente perché in una intervista Cobain aveva detto di non voler mai pubblicare il suo diario, ma poi lo hanno fatto lo stesso.
Mi ricordo che una volta in libreria vidi una copia del suo diario, lo presi con una mano mentre con l'altra contavo le banconote dentro la tasca della giacca, mi sentivo quasi innamorata. Mi misi a sfogliare le pagine, guardai qualche disegno restando a bocca aperta, incantata. Poi lessi una frase qui, una frase là e prima di rendermene conto ero fuori dalla libreria a mani vuote. Non ce l'ho fatta, non me la sentivo di leggerlo, mi sembrava una cattiveria, uno sgarbo, una cosa ingiusta.
Magari è vero che per i "volti noti" non esiste privacy, ma trovo disonesto intrufolarsi a questo modo nella vita di qualcuno che non può fare niente per proteggersi, per dire la sua. Mi sembra solo una mancanza di rispetto per la sua privacy e per i suoi dolori più intimi, una mancanza di rispetto per tutte le volte che lo hanno deriso o emarginato.
Beh, mi ricorda un po' quelle interviste da cronaca nera: oh, ma era un caro vicino! Salutava sempre, sorrideva, dava dolci ai miei nipoti e innaffiava le mie piante, non potevo immaginare che il mio caro vicino avrebbe sterminato una famiglia di brave persone!
Oppure: Che peccato che il mio caro vicino si sia suicidato! Era proprio una buona, cara persona... sì, lo so che ho chiamato la polizia più volte perché di notte faceva casino con gli amici e ho detto agli agenti che era un criminale drogato... però era tanto una brava persona!
Ecco, ipocrisie del genere mi fanno incazzare.
Perciò ho anche aggiunto stima a quella che già avevo per Dave Grohl, batterista dei Nirvana e in seguito creatore e frontman dei Foo Fighters, che non ha voluto partecipare al film documentario.
Ma tornando a Kurt Cobain, se ne sono dette di cose, se ne sono fatte di cause legali, di dichiarazioni, di smentite e quant'altro. Semplicemente, data la situazione, non mi sembra il caso di continuare con questa linea d'azione. Per capire o conoscere una persona, o qualunque verbo si voglia usare a seconda dei casi, non basta sentire quello che hanno da raccontare gli altri. Neanche se raccontassero sotto giuramento, con una mano sulla bibbia e l'altra sul petto.
Sarebbe bello sentire Cobain raccontare se stesso, chiedere direttamente a lui, o sentirsi mandare a fare in culo perché gli scoccia ricevere sempre le stesse domande. Sarebbe davvero bello, ma oramai non si può più. Il tempo delle interviste e dei racconti è finito. Quello che si poteva sapere del vero Kurt si è già saputo, il resto sono speculazioni di vari gradi e misure.
Se mi va di ricordarlo, personalmente ascolto le sue canzoni o le sue interviste o guardo i filmati dei live. Non vado a pagare della gente per scavare alla ricerca di nuove informazioni.
Il denaro, poi, guida le azioni di molte persone; so che non dovrei giudicare, ma questo lo capirei se qualcuno rischiasse la fame, la miseria e la vita sotto i ponti, invece se i soldi già ci sono e se ne vogliono semplicemente aggiungere altri allora per me possono e devono andare a fanculo.
Non si sfama la gente ricordando la pizza mangiata un anno prima, se si capisce cosa intendo.

E non intendo neanche trovare un finale per questo post, questo flusso di coscienza, questo something in the Way.

martedì 19 maggio 2015

Sogni di fuga.

Mi hanno proposto di fare una vacanza a Parigi. Ci sono stata nel 2013 (caspita, mi sembrano passati solo un paio di mesi!) ma credo mi siano venuti gli occhi a cuoricino. Ci voglio tornare! Nonostante il freddo che faceva a maggio e tutti i malanni che ho preso in quei sette giorni ci voglio tornare, ne ho nostalgia, mi manca come un caro amico lontano.
Eppure mi sa che non potrò. E ci sono rimasta malissimo.
Immaginavo già che una volta atterrata sul suolo francese mi sarei chinata a terra per baciare il suolo, correndo il rischio di essere scambiata per una terrorista musulmana intenta alla sua ultima preghiera prima della strage. Il ché è ironico, sia perché sono una agnostica convinta, sia perché non ho la ben che minima idea di dove si trovi La Mecca.

Voglio una seconda opportunità, voglio rivedere e rifare cose che ho già sperimentato direttamente ma voglio anche aggiungere novità.
Mi era sembrato ridicolo andare al Louvre per guardare, tra le altre cose, pitture italiane: voglio andare in Francia e vedere solo quadri francesi.
Voglio mangiare la tradizionale zuppa di cipolle e poter dire con cognizione di causa quello che mi dicono tutti: beh, in effetti fa abbastanza schifo.
Vorrei vedere l'interno del palazzo di Versailles e potermi lanciare in una delle mie classiche filippiche dal tema "ricchi che mangiano sui poveri" e dopo innamorarmi ancora di quei giardini meravigliosi.
Voglio vomitare di nuovo la prima notte in albergo e sapere che tutto, ma proprio TUTTO il piano mi ha sentita rimettere e imprecare in siciliano.
Mi manca la metrò! Voglio tornarci e rischiare di addormentarmi ad ogni fottuta corsa.
Voglio ritrovare quei waffel strafighi e poter esclamare emozionata "Finalmente di nuovo insieme, io e te, te ed io!"
Voglio trovare un altro Hard Rock Cafe (pare ce ne siano due a Parigi), tentare di trovarlo in meno tempo e con meno fatica della volta precedente e comprare qualche cazzata, anche fossero tre plettri a quindici euro.

Invece niente. Mi sa che per me viaggiare resterà ancora un sogno, almeno per un po'. Troppi casini al momento nella mia vita, la salute non mi permette di fare grandi progetti, dovrò ancora una volta portare pazienza. Vedremo...


Stay Rock!

venerdì 8 maggio 2015

Pensieri vari.

Sono stanca.
Non voglio essere quella depressa che fa deprimere gli altri e non voglio essere lamentosa. Ma lo sono.
Disgraziatamente ci sono periodi in cui lo sono.

Mi rendo conto di avere un po' il disturbo bipolare, oppure la ciclotimia. E so che non dovrei diagnosticarmi malattie di nessun genere, soprattutto consultando google e siti dalla dubbia validità psicologica e non uno specialista; i sintomi però ci sono e ho imparato a riconoscerli.
Up and down.
C'è stato un periodo di calma e tranquillità, poi ho trascorso un bel primo maggio con amici vecchi e nuovi (io che socializzo, davvero, sono la prima ad esserne stupita), ho persino flirtato con un ragazzo piuttosto carino e molto interessante (sebbene abbia l'abitudine di chiamare la gente "zio/a", me compresa e questo sia fastidioso). Eh sì, insomma, flirtare con lui è stato piacevole, divertente, appagante, rivitalizzante, entusiasmante, ante, ante... Per alcuni giorni successivi sono stata davvero bene, di buon umore, con voglia di uscire e fare cose, andare all'avventura, di fare la scema con i miei amici per ridere e scherzare tutti insieme, in allegria. Così in allegria che una sera un mio amico mi ha detto "Sembri ubriaca, cazzo c'era nel dolce che hai mangiato?".
Adesso sono sempre di umore nero. Non bevo più il the che tanto mi calmava, non ho voglia di prepararmi per uscire e andare in giro a vedere gente, non ascolto musica, rispondo male a chiunque per qualunque domanda oppure non rispondo affatto (un grugnito non è una risposta), non leggo più, non scrivo da non so quanto tempo. Magari leggo qualche post dai blog che seguo ma li lascio senza lasciare traccia: non mi viene niente da dire, non ho niente da dire. Vado via per come sono arrivata: dall'ombra informe, in un angolo, senza fare rumore.
Non ho voglia di fare niente di niente.
Sono stanca di sentirmi così. Stanca di sentirmi tanto nera. Tanto inadeguata. Tanto fuori posto.

Non sono una psicologa, ma penso che alla fine si riduca tutto a questo: non mi amo abbastanza.
Mi amo il più delle volte, altre volte per niente. Quello che è, non è stato un sentimento nato spontaneamente, l'ho forzato perché sapevo che nessuno lo avrebbe potuto fare al posto mio, nessuno sarebbe mai stato completamente dalla mia parte. Così sto certamente meglio rispetto a, boh che dire, diciamo otto anni fa; però continuo a faticare tanto per cose che la gente da per scontate, proprio perché le fa con naturalezza, senza pensare, d'istinto.
Il mio istinto di socializzazione è pari a zero.

Eppure ci sono state, e alcune ci sono ancora, persone che mi hanno detto che sono una buona/ottima amica. Questo mi fa stare bene, la maggior parte delle volte invece mi confonde, mi fa chiedere sarà vero? Okay, so ascoltare, ho empatia in abbondanza, so dare consigli sensati (mi basta pensare cosa farebbe una persona sana? Cosa non farei io? E boom, un altro buon consiglio dispensato con amore). Ma quando certuni lo dicono lo accompagnano a un sorriso vero, non di quelli finti, preconfezionati, che si capisce quando un sorriso è vero e quando non lo è. Allora mi illudo di non essere poi tanto male, come persona, come amica. E quando penso a queste ultime cose penso sempre ad una canzone dei Rasmus che dice

Just one more life
I'm so sick and tired of singing the blues
I should turn my life around
Tell me why do I feel this way
all my life I've been standing on the borderline
too many bridges burned
too many lies I've heard
[...]
They follow me home, disturbing my sleep
but I'll find a place, place where they cannot find me
Maybe I'm lost and maybe I'm scared
but too many times I've closed the doors behind me
(Time to burn, The Rasmus, album: Dead letters, 2003)

Pure delle persone che con un vero sorriso mi hanno detto di essere una buona amica alla fine se ne sono andate. Sparite, anche senza dire niente. La colpa è anche mia: non riesco ad essere sempre presente, non sono assillante, a volte lo spazio che do è troppo e si scambia per indifferenza. Perché se non è questo, se non è la mia falsa indifferenza ad allontanare tutti, allora cos'è? Non è la vita, in un buco di città come questo. Non vedo gente da mesi pur vivendo a pochi chilometri di distanza.
Poi c'è chi, a diverse regioni di distanza, c'è. La mia G. c'è, anche quando passano mesi senza sentirci, poi ci sentiamo ed è come se quei mesi non ci fossero mai stati, come se fossimo ancora le liceali che andavano a piedi alla stazione dell'autobus. A volte mi sono chiesta come sarebbero state le nostre vite se ci fossimo incontrate alle elementari; saremmo state comunque amiche? Sarebbe stato meglio o peggio? Ma anche qui vige l'abitudine di frequentare la scuola più vicina, almeno fino al pieno dell'adolescenza.
Quindi, se non è l'impressione che sono indifferente, ed escludendo la mancanza del bisogno della mia spalla comprensiva (in tal caso il ponte lo brucio io, buona sì ma fessa no), allora cos'è? A volte la risposta non mi importa, vado avanti come ho sempre fatto, dritta tutta e lacrime in tasca. A volte la risposta mi dico che sono io.
E non sono capace di cambiare il flusso dell'acqua sotto i ponti.

domenica 3 maggio 2015

2015 Reading Challenge: Aprile.

Alla facciazza di alcune settimane di aprile trascorse interamente tra malanni vari (tra cui una emicrania pazzesca che sembrava mi stessero pugnalando la tempia sinistra senza pietà e un dito chiuso nella porta che a momenti potevo dire addio all'unghia e che ora somiglia alla faccia pesta di un pugile), sono riuscita a leggere i due libri che mi mancavano per concludere la saga sulle pantere mannare di Rachel Vincent, un libro della mia infanzia (vabbè, pochi minuti ci sono voluti) e mi mancano un centinaio di pagine per finire, finalmente, anche Grandi speranze. Dickens, perdonami.

Il penultimo libro mi ha lasciata quasi del tutto indifferente: se uno dei cattivi non avesse detto a Marc di essere un fidanzato cornuto, probabilmente avrei considerato tutta la faccenda una grossa e inutile perdita di tempo. Certo però che per essere un tipo irascibile, l'ha presa piuttosto bene questa cosa. Colpisce Jace un paio di volte e mette il muso a Faythe, poi per il restante libro e il seguito è tutto aggressività passiva e ultimatum. Marc le chiede molte volte di scegliere tra i due e lei rimanda, un po' per i casini politici e i lutti, un po' perché non ci capisce un accidente. Jace è uno zerbino e recita la parte del fidanzato perfetto, quello comprensivo che mette i bisogni di lei davanti ai propri, sempre; al contrario Marc (oltre a quanto già detto) fa quello che gli pare, a seconda dell'umore o la insulta o le parla del dolore e dell'umiliazione pubblica che gli infligge. Alcune cose per me restano senza significato, come la scena dove lei si lagna che lui non la tocca, lui perde la pazienza e suppongo qualcosa d'altro, la trascina in un capanno degli attrezzi per una sveltina squallidissima che manco nei peggiori bar di Caracas e poi la lascia là, ancora nuda sconvolta.
Il perché Marc non la manda a Fanculolandia (a parte perché la ama, misteriosamente) mi è ignoto, immagino sia il sottile confine tra smania di vincere, masochismo e l'assoluta certezza di avere trovato la persona giusta per la vita.
Non posso negare che il personaggio di Marc non è tra i miei preferiti, né che provi molta simpatia per lui, ma persino una stronza come me deve ammettere che nel sesto libro è quello più bistrattato, umiliato e degradato senza neanche dei validi motivi. Ma forse c'entra (anche) il fatto che Faythe mi piace meno di Marc. Quanto meno lui ha una certa coerenza e personalità stabile, irascibilità esclusa.
Verso la fine Marc ha un lampo di genio: stanco di aspettare se ne va, adios. E finalmente lei inizia a capire...
Dovrei essere contenta perché tre quarti delle mie previsioni si sono avverate (questo perché la seconda teoria aveva un elemento inconciliabile con la prima, altrimenti avrei indovinato tutto), invece il finale per me è stato deludente. Lei fa la sua scelta, lo scartato va a costruirsi una vita altrove e più o meno finisce così.
Una saga è un impegno a lungo termine, ci si investe più di quanto si faccia con un singolo libro. Qua ce la mena per sei fottuti libri sul rivoluzionare il sistema politico, di ciò che è giusto e cosa sbagliato, di lottare per i cambiamenti, di credere in ideali, di quello che sarebbe potuto accadere al ragazzo scartato e alla donna incinta per miracolo (non aggiungo dettagli) e decine di altre incertezze e alla fine accampa un finale che è più la conclusione di un capitolo, non di una saga. Nella sua brevità lascia più domande e vuoti che conclusioni. Io voglio un epilogo, una vista sul futuro, una narrazione completa dei fatti, altrimenti non leggo una saga ma un libro singolo, autoconclusivo. Non mi piacciono i finali aperti. Io voglio sapere, non voglio dover immaginare il seguito, farmi mille teorie, non sta a me scrivere il seguito. Non voglio.
Alla fine non è stata la lettura leggera che volevo e mi aspettavo: troppi guai e poche battute, troppi drammi e poche vittorie. Senza contare che i paladini dell'ingiustizia che trionfano mi urtano i nervi più di quanto io possa spiegare. L'unica parte vagamente divertente è stata la seguente (i tre vengono trasportati in volo sul nido di condor mutaforma):

(Faythe) -Stai bene?-
(Jace) - Per l'inferno, no!- Rimase in piedi per un istante, vacillando, e si aggrappò a me, la faccia più bianca di una strada del Texas bruciata dal sole -C'è una ragione precisa se i felini non hanno le ali.-
-Sì, ma se non altro cadiamo sempre in piedi-
-Allora com'è che io sono caduto sulle chiappe?-

Perciò per trovare leggerezza ho usato il jolly: un libro dalla mia infanzia e che si può leggere in una giornata, segnando così almeno due punti. Il libro è Gimmi a scuola, di Willi Tobler con illustrazioni di Hans de Beer, uno dei miei preferiti quando avevo sette anni. Ecco una foto del libro con la mia "libreria" (anche se non si vede, è piena fino all'orlo e altri libri sono in giro per casa).